La strada è stata decisa fin da subito da mio padre e avallata da mia madre: farà l’insegnante. Poi si sposerà e avrà una famiglia. E resterà vicino ai suoi genitori.
Il resto non contava.
E io, che al liceo mi domandavo come si facesse a diventare adulti, sì a passare “dall’altra parte”, ad un certo punto a questa strada mi sono aggrappata pensando fosse l’unica possibile per saltare il fosso e disfarmi finalmente delle mie paure di bambina. E invece le ho chiuse in una gabbia con me dentro. La mia forza vitale provava a dirmelo, ma io per tutta risposta mi davo da fare per abbellire quella gabbia come non ci fosse davvero alternativa per me.
Vivere un periodo a Londra dopo la laurea no, andare a trovare il mio grande amore dei vent’anni no, condividere i miei pensieri su un ipotetico futuro diverso da come se lo aspettavano loro senza che mi arrivassero giudizi e mortificazioni no… Quel diktat mi veniva ripetuto come un mantra in diversi modi ed io ero una brava bambina impaurita. E poi era pur vero che marito e figli erano da sempre nei miei pensieri. La professione, invece, un punto di domanda.
E quando non sai quello che vuoi, resta quello che devi.
Il punto di domanda chiudeva la gabbia.
Nella sua grande libreria di saggi storici mio padre aveva un solo libro che mi incuriosiva davvero, unico sull’argomento. Scritto da un sociologo e psicoterapeuta americano e pubblicato con una copertina colorata stile anni Ottanta. Ricordo di averlo letto tutto d’un fiato. Parlava di limiti e ansia, di fiducia in sé stessi e potenzialità. E, meraviglia, lo faceva con un linguaggio comprensibile e senza ricorrere a ricatti manipolatori.
Lo conservo ancora tra i miei libri e oggi è in buona compagnia. Allora non lo sapevo, ma quello è stato il mio primo passo verso me stessa.
Non è andata esattamente come i miei avrebbero voluto. Ad un certo punto ho sentito l’urgenza di scoprire le mie carte, guardare in faccia la mia paura e incominciare a osare.
Oggi credo sia stato tutto funzionale al mio cammino evolutivo. Benedico la strada già decisa, i rapporti simbiotici che ho vissuto, le due maternità felici che mi hanno “obbligato” a sentire di nuovo la mia parte bambina con le sue paure ancora lì, il lavoro di giornalista scelto per amore della scrittura, e poi mi dava un’identità professionale che mi faceva sentire importante oltre il fatto di essere “la moglie di” e “la mamma di”.
Il lavoro sul campo ha contribuito ad accrescere la mia autostima, però continuavo a sollecitare le conferme di cui avevo bisogno e non bastavano mai. Ed è arrivata la crisi dei quarantacinque quando tutto è andato in frantumi. Un dolore enorme che per anni mi è tornato indietro come un boomerang.
Giocoforza sono ripartita da quella bambina impaurita.
Il counseling mi ha insegnato a poco a poco ad ascoltarla e a dialogare con lei e con le altre mie parti, fra cui un giudice spietato. Ed è così che ho creato dentro di me, lentamente, la strada per diventare davvero adulta. La mia strada. Da percorrere con il mio passo per darmi il valore che sono.
Su questa strada la formazione in counseling è stata un passo complementare e cammin facendo ho incominciato ad immaginarmi counselor io stessa… E poi a permettermi di diventarlo – e mi ci sono voluti altri anni! Nel frattempo ho approfondito i temi della ciclicità femminile che andavano di pari passo ed arricchivano la mia personale esperienza. Il passo successivo è stato un un lavoro introspettivo con alcune donne che come me non si accontentavano di una strada già decisa per loro…
A proposito, lo scrittore in questione aveva pubblicato due libri sul counseling alla fine degli anni Settanta, mai tradotti in Italia ma segnalati sul risvolto di copertina. Era mia abitudine già allora leggere le note biografiche degli autori, ma che cosa fosse il counseling non ne avevo la minima idea…