ruoli sociali

È questo che vogliamo?

No, io non mi riconosco in una società così fatta in cui una mamma che ha appena partorito crolla di stanchezza e il suo bimbo perde la vita che gli ha appena donato; in cui abbracciare mia figlia dopo il parto mi è negato sia pure con il tampone fresco di giornata; in cui non puoi vedere il tuo nipotino neppure da dietro il vetro della nursery che tanto nella nursery oggi non li tengono più neanche il minimo indispensabile affinché una neomma recuperi un po’ di forze; un mondo in cui al padre, o altro genitore che sia, è permesso fermarsi una volta soltanto al giorno e per due ore al massimo; in cui le ostetriche ti insultano – saranno anche in burn out ma empatia zero a prescindere – peggio del peggior ginecologo di trent’anni fa quando ho partorito io e umiliare una donna che gridava d’istinto era la norma (con le debite eccezioni, certo, ma si tratta pur sempre di eccezioni). Almeno si allattava tutte insieme, a ogni ora del giorno e della notte, e non mancava un sorriso.
No, io non mi riconosco in questo sistema perverso che osanna il culto delle madri e disprezza le donne in un cortocircuito che spezza la vita.

E spostando lo sguardo su aspetti della quotidianità che non portano con sé dolore, perlomeno apparentemente e non nell’immediato, non mi riconosco nelle leggi di un mercato fuori controllo. La casa non è più un diritto. Non parlo di villa con piscina, parlo di un appartamento dignitoso in cui avere quello spazio minimo, indispensabile per vivere senza che richieda un doppio stipendio e plurigaranzie. E se già riesci a pagarti affitto e utenze, non avanzi nulla per nutrire la tua anima che non mastica né il cemento né il superfluo di cui siamo circondati. Eppoi riempiamo tavole rotonde con sguardi preoccupati per figli che vivono ancora in casa e non è normale. Perché il “resto” lo è?! Studiare anni e non potersi realizzare nella professione lo è?! Lo è per un donna non riuscire a raggiungere l’indipendenza economica?!

Non mi riconosco neppure nell’accelerazione che ti risucchia come una forza centrifuga e ci siamo dentro, immersi nel vortice di un fare finalizzato a produrre senza sosta qualunque cosa sia purché vendibile. Salvo poi stiparne in quantità in ipermercati che ti ci perdi o nei magazzini o in distese di asfalto senza confine come si fa con le auto invendute. Rifiuti nuovi di cui non si sa che fare.
Nei negozi intanto le porte restano rigorosamente aperte perché la gente sia invogliata ad entrare e si continua a sudare in inverno e gelare d’estate alla faccia del riscaldamento globale.

Nulla è sostenibile di tutto questo. E ciò che non è sostenibile per il pianeta non lo è neppure per noi. Per nessuno di noi, neppure per chi possiede villa con piscina e ne ha d’avanzo.
Quante questioni viviamo in modo personale pensando di essere noi il problema quando in realtà è il sistema a generare situazioni disfunzionali in cui non stiamo bene. Una madre questo lo vive tutti i giorni con una sensazione di inadeguatezza che non è affatto innata; è indotta. E con l’inadeguatezza addosso impara a fare il salto triplo. Lo stress è inimmaginabile e riempiamo altre tavole rotonde quando arriva la tragedia sezionandola in modo morboso fino a quando tutto viene risucchiato nel vortice.

Ci accorgiamo delle insensatezze che passano per normalità? Perché il primo passo è rendersene conto. Sì, lo so che nessuna di noi ha il potere di spostare quelle auto o di organizzare la produzione in modo che auto invendute non ne esistano proprio, lo so che fosse per te o per me le porte dei negozi resterebbero chiuse tuttavia credo non sia questo il punto. Il punto è che ci siamo assuefatte, assuefatti a vivere fuori equilibrio. Come dire che è la “nostra” normalità. E in questa “normalità” possiamo davvero stare bene? Almeno rallentiamo un po’, una volta alla settimana, un’ora la sera, cinque minunti alla scrivania. Potrebbe essere il primo gesto di amorevolezza nei confronti di sé da tempo immemorabile, un piccolo passo-antidoto al vortice del fare in accelerata che ci sottrae a noi stesse, a noi stessi.

  1. Continua

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