1900, Annita sognava di diventare maestra. Era molto brava a scuola e amava i bambini, ma suo padre disse no. Erano in tanti in famiglia e servivano braccia non solo per il lavoro nei campi, ma anche per le faccende in casa. E Annita, fra l’altro, era una delle più grandi.
1931, il sogno di Caterina era l’insegnamento, in particolare insegnare ai bambini. Ma suo padre disse no, una maestra finisce per lavorare lontano e sarebbe stato un grande dispiacere una figlia lontano, magari in una valle sperduta su in montagna come era capitato ad una ragazza del paese. Avrebbe invece fatto le commerciali con la sicurezza di un buon impiego vicino a casa.
1976, Annalisa avrebbe fatto volentieri la maestra, uno dei suoi giochi preferiti da bambina. Avrebbe voluto iscriversi alle magistrali ma suo padre disse no, l’unica scuola di prestigio che le avrebbe dato una preparazione seria sarebbe stato il liceo classico.
Nessuna possibilità di replica. I padri decidevano per le figlie, e anche per i figli a dire il vero. Entrambi avevano il solco già tracciato. Sceglievano per ciò che ritenevano fosse il bene di figlie e figli in base ad aspettative familiari e sociali e le attitudini personali non avevano importanza. Se c’era qualche eccezione, restava tale.
Caterina era mia madre e Annita mia nonna.
Per quanto riguarda me, la maturità classica non è affatto motivo di orgoglio. Mi sono allenata alla resilienza, questo sì, mentre scegliere per me stessa è stato qualcosa che ho appreso faticosamente da adulta e non una volta per tutte.
Ora, se oggi celebriamo un traguardo, una conquista è perché lo sguardo patriarcale sulla linea di partenza ci ha posizionato indietro e il volere di una donna contava uno zero tondo tondo. Altre persone sceglievano per noi inculcandoci la morale, il giudizio e la vergogna. E se non avevi la stoffa della ribelle pronta a spaccare il mondo, facevi di mitezza virtù covando però spesso una rabbia esplosiva. Sì, anche in questo caso ci sono delle eccezioni e in quanto tali si contano sulla punta della dita.
Se festeggiamo la rivendicazione di un diritto è perché quel diritto non ci era stato riconosciuto. Cent’anni fa non votavamo neppure ed era considerata la normalità. In compenso eravamo i pilastri che tenevano insieme il tessuto sociale, lo siamo sempre state, altro che capitani di industria. E se oggi il tessuto sociale si è disgregato, se il focolare domestico non esiste più, non è perché le donne hanno una professione alla quale tengono che le tiene lontane dalle mura domestiche. No, il messaggio è questo con relativi sensi di colpa, ma di fatto il focolare l’ha distrutto il pensiero oppositivo sostenuto a gran voce dal patriarcato che considera i cosiddetti lavori femminili qualcosa di poca importanza, roba da donne insomma. Questa la grande menzogna che pesa sulle spalle di generazioni di donne. La capacità di cura in senso lato, a esclusione del particolarissimo legame simbiotico tra la mamma e il suo bimbo neonato, non è una questione di genere. È una questione culturale. Altre civiltà lo confermano e si vive in pace.
Tornando ai diritti, intendiamoci, i diritti lo sono per nascita e non per genere di appartenenza.
Primi anni Duemila, Martina ama il teatro. Anche i bambini, sì, ma il teatro è cosa sua e con esso la scrittura. Sceglierà la sua formazione in base a ciò che sente e la percorrerà senza sconti. Di fronte a lei nessuna certezza, una professione tutta da costruire, e sì fa anche un po’ paura. Il primo passo è sapere di poterlo fare e avere la libertà e il sostegno necessari per farlo. Il suo sogno così a poco a poco diventa realtà.
Martina è mia figlia e io nel mio piccolo festeggio questo. Festeggio il primo passo, il coraggio di crederci, l’abbraccio che nutre e lascia libera. Festeggio la possibilità di sperimentare per poter comprendere chi sei e chi puoi diventare. Soprattutto da giovane, ma non soltanto.