“Sono stufa di dover elemosinare qualche ora di aiuto con il mio bambino per poter fare il mio lavoro!“.
Queste le parole di una giovane donna, madre di un bimbo di quasi un anno e un compagno che no, non è un maschilista. Lui però non deve chiedere nulla. Tocca a lei far quadrare il cerchio anche quando sembra un’impresa impossibile come se essersi costruita una professione sul campo – e trarne soddisfazione – fosse una pretesa da ridimensionare e non un diritto, e una necessità, da mantenere pur restando molto presente in casa per il suo bambino.
L’indipendenza economica è fondamentale per la propria autostima e una parità che sia tale eppure il lavoro della donna non vale tanto quello dell’uomo. Lo sappiamo benissimo e nonostante questo il carico di una donna continua a essere doppio come se l’accudimento fosse un esclusiva di genere (non stiamo parlando della naturale simbiosi dei primi mesi del bambino con la mamma). Di fatto nel sistema patriarcale lo è.
Tramontata (del tutto?!) l’idea del capofamiglia, la parità è un miraggio nel modello ereditato, deriva perversa del maschilismo che da millenni detta legge.
Respirandone fin da piccole la sua gretta “verità” impariamo presto ad aderirvi come fosse cosa “buona e giusta”, addestrate a principi insindacabili. Quale pensiero ci fosse dietro non ne avevamo idea. Fatto sta che sentire di desiderare qualcosa di diverso per sé ci ha richiesto, e continua a richiederci, una quantità enorme di energia, a tal punto da arrivare inconsciamente a rinunciare ad una parte di noi stesse pur di allentare la morsa del senso di colpa con tutto il suo corollario.
Sì, dentro l’aut aut del pensiero conflittuale imposto dal patriarcato campeggia proprio il senso di colpa. Non esiste donna che non lo viva sulla propria pelle, quotidianamente. Stiamo bene così? Certo che no.
A rafforzare questa narrazione tossica è l’inevitabile coinvolgimento della madre. Finché non ne diventa consapevole, il suo insegnamento tiene i figli in scacco, le figlie relegate nello spazio (psichico) esiguo in cui lei stessa si trova. Per molte di noi questo modello si traduce in un “non puoi essere più di quello che sono stata io” ed è così che il sabotaggio di sé e dei propri figli diventa un destino. Io l’ho vissuto fino alla soglia dei quaranta. La sofferenza era tanta e nessuna area della mia vita ne era immune.
Da un lato esisteva il patto non scritto di fedeltà a mia madre e ai suoi insegnamenti, al suo bisogno di sapermi al sicuro, dall’altro la fedeltà a me stessa, l’amore di sé che allora non sapevo neppure cosa fosse e richiedeva il coraggio di osare, di dare voce alla donna che ero e uscire da quella gabbia “sicura” per esplorare il mondo là fuori pieno di percorsi a ostacoli, più di quanti non fossero in realtà. Sono cresciuta con la paura addosso e questa lacerazione interiore, i miei desideri perlopiù inascoltati. E prima che riuscissi ad abbracciare me stessa tutta intera ho passato anni con il dito puntato contro mia madre alimentando la mia già grande sofferenza.
Crescendo in questo sistema patriarcale, non solo le istituzioni ma anche e soprattutto le persone per noi più importanti ci insegnano che la salvezza è là fuori, nell’adesione al modello, nella soddisfazione delle aspettative familiari e sociali che ci accompagnano fin dalla culla. Dedite agli altri, altruiste e servizievoli (quante volte me lo hanno ricordato da bambina come virtù eccelsa in una donna): queste le caratteristiche che il patriarcato esige dal genere femminile, inscatolato in una categoria rigida e immutabile nel tempo. Peraltro come il suo corrispettivo maschile, altrettanto ingabbiato.
Ora il passo da fare è un grande passo. E va fatto per noi stesse, per le figlie e i figli nostri e per chi arriverà dopo di noi, per tutte le creature e la stessa terra madre. Un passo che sana la ferita del materno e ci permette di recuperare il proprio potere interiore. Un cambio di sguardo, di direzione: la salvezza non in un atteggiamento servizievole a ogni costo ma in un atteggiamento di ascolto profondo continuamente rinnovato e di amore di sé a prescidere dall’approvazione altrui compresa quella della propria madre. Abbiamo una madre interiore che è un distillato del materno e ci aiuta a compiere questo passo, ad amare la nostra parte bambina vittima di questa ferita evitando di diventare a nostra volta e senza volerlo carnefici.
La rivoluzione del materno inizia così e scardina il pensiero patriarcale. E così è davvero una festa della mamma, via dallo stucchevole racconto di una maternità edulcorata che tiene madri e figlie nell’impossibilità di evolvere in una relazione autentica e feconda.
Bellissimo articolo.
Diventare madre di me stessa e’ quello che sto facendo. E sento la fatica di riuscire a farlo . Si rimane sole . Ma questo è un passaggio quasi obbligato
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Grazie delle tue parole, sì diventare madri di sé è un passo dopo l’altro e richiede una pazienza infinita…
Ti abbraccio nella condivisione di questi passi…
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Grazie
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