Nasciamo con il giudizio addosso e dentro c’è già fatica. Cresciamo e la fatica cresce con noi. Certe volte non siamo neppure così sicure di voler crescere, ma la biologia fa il suo corso.
E intanto, mentre siamo ancora piccole, pensiamo che una volta grandi tutto si sistemerà, anche la fatica, perché saremo “grandi” in tutti i sensi.
Potrebbe essere davvero così, potremmo davvero essere “grandi”, ma il giudizio è uno degli aspetti della nostra personalità che ce lo impedisce. Il giudizio limita, restringe la visione, incolpa, condanna, crea separazione fuori e dentro di noi.
Quando non è discernimento, il giudizio è un moltiplicatore di fatica. Parla usando sempre il modo indicativo – “è così!” – e mai il congiuntivo o il condizionale – “penso che sia così” o “potrebbe essere così”.
Dunque di fronte ai punti esclamativi impariamo presto ad adattarci ai dettami altrui. E un punto esclamativo sull’altro diventano un peso che ci carichiamo sulle spalle fino a piegarci. Inutilmente perché non è peso nostro.
Il ciclo mestruale ce lo ricorda ogni mese. Ce lo ricorda a grandi lettere anche la menopausa. Se facciamo orecchie da mercante, chine sotto quel peso, arriva persino a urlarcelo che è ora di alleggerirci togliendo potere là dove l’abbiamo dispensato eccessivamente: troppo ai pensieri altrui, alle aspettative, ai giudizi appunto.
Ce lo ricorda e ci insegna come alleggerirci nella sua alternanza di energie diverse, nel bisogno di espansione e in quello altrettanto legittimo di ritrarsi e dedicarsi a sé, nel bisogno di fare e in quello di stare, nelle rivendicazioni del giudice interiore e nell’istinto creativo che incontra i sogni.
Tutto dentro al nostro personale ritmo che non prevede pesi estranei se non ce li aggiungiamo noi come non fosse possibile altrimenti. Ma oggi siamo grandi e sappiamo che altrimenti si può.